La ricezione degli Esercizi Spirituali: testimonianze documentali

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di Martín Morales S.I.

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Abstract

Il testo analizza la pratica degli Esercizi Spirituali di Sant’Ignazio da una prospettiva storica, considerandola come un processo di comunicazione e appropriazione di un testo. L’autore sottolinea l’importanza di studiare la ricezione del testo da parte dei destinatari originari, poiché la comunicazione avviene solo nel momento della comprensione. Il testo è sempre relativo a una certa società e le sue aspettative sono orientate a non frustrare quelle dei lettori. L’enorme produzione di testi manoscritti e a stampa sugli Esercizi ha portato a una proliferazione di variazioni, obbligando a nuove selezioni per stabilire ciò che si considera identitario. La figura del direttore degli Esercizi è stata un modo di controllare l’incertezza dell’interpretazione del testo e riorientare eventuali delusioni delle aspettative da parte dell’esercitante. L’autore riconosce l’inafferrabilità del concetto di “spiritualità”, che è essenzialmente storica e ha come referente il sistema sociale in cui circola. Infine, l’Autore sottolinea le difficoltà dello storico nell’affrontare l’enorme mole di dati non selezionati ma accumulati, che rende impossibile unire causalmente le reti di eventi in una trama coerente.

Keywords

Esercizi spirituali, comunicazione, testo, variazioni, Direttore degli Esercizi.

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La storia degli Esercizi Spirituali

La storia degli Esercizi Spirituali di Sant’Ignazio di Padre Ignacio Iparraguirre Aldaondo SJ (1911-1973)[1] è un’opera imprescindibile per lo studio della pratica di questo metodo ascetico. In tre densi volumi, pubblicati dal 1946 fino all’anno della sua morte nel 1973, si raccolgono la pratica degli Esercizi dall’epoca di Sant’Ignazio al XVIII secolo. Questo sforzo racchiude tutto l’arco della ricerca del gesuita basco. Un imponente lavoro di analisi e di raccolta di fonti ci permette di seguire la storia della ricezione di quello che Iparraguirre chiama il piccolo libro immortale.

Quest’opera rappresenta l’ultima nel suo genere e si colloca in un ampio movimento euristico, databile intorno al Concilio Vaticano II, che talvolta è stato denominato come “ritorno alle fonti”. Concettualmente questo movimento introduce un paradosso che lascia in evidenza, allo stesso tempo, i due lati di una distinzione: rinnovamento e ritorno alle fonti antiche. Questa ed altre forme permetteranno di assimilare i contrari e di dissimulare ogni possibile contraddizione.

Precisamente, negli stessi anni in cui Iparraguirre e altri gesuiti si trovano dedicati a fare ricerca tra gli antichi codici che, secondo loro, racchiudevano la spiritualità ignaziana, sarà Michel de Certeau a osservare l’operato di tanti gesuiti che si ascriveranno in quel pellegrinaggio verso l’origine. Egli dichiarerà in un articolo, ancora attuale, l’illusione del ritorno alle fonti così come la costruzione di ciò che lui denominò il mito delle origini[2].

Oggi invece sembrerebbe che l’interesse per la “spiritualità ignaziana”, e per gli Esercizi Spirituali in particolare, prescinda da quel lavorio che animò a una intera generazione di gesuiti. Gli abbondanti documenti sulla “spiritualità ignaziana” che popolano gli archivi rimangono indisturbati nel buio dei loro magazzini. Se la spiritualità si mette al centro, gli archivi vanno in periferia.

Questa discrasia tra l’interesse riguardo la “spiritualità” e l’allontanamento dallo studio delle sue fonti può trovare una spiegazione nell’ambiguità dello stesso concetto di spiritualità. La circolazione di questo termine è diventata preponderante solo a partire dal XX secolo. Vista la sua ampiezza semantica, è funzionale a produrre inclusione nella dinamica comunicativa della società, essendo il binomio inclusione/esclusione un codice determinante per l’orientamento della comunicazione. Al contrario, la disamina della nozione di spiritualità, l’analisi della sua evoluzione nei cambianti sistemi sociali, produrrebbe disaccordi interpretativi che rischierebbero di produrre esclusione.

Il primo volume è il risultato della sua tesi di dottorato presso la Pontificia Università Gregoriana sotto la direzione di P. Pedro de Leturia (1891-1955), che fu il primo decano della Facoltà di Storia Ecclesiastica e direttore dell’Istituto Storico della Compagnia di Gesù. La tesi fu poi pubblicata nel 1946 nella collana Bibliotheca dell’Istituto Storico della Compagnia di Gesù. In questo volume sono già anticipati alcuni dei nodi gordiani su cui Iparraguirre tornerà nei seguenti.

La terza particolarità degli esercizi ignaziani è che non solo non vengono letti, né vengono eseguiti pedissequamente secondo uno schema fisso e meccanico, ma tra l’esercitante e il libro c’è una persona: il direttore, che indica, ordina e regola la materia delle operazioni[3].

Questa considerazione denota uno dei paradossi introdotti dalla tecnologia della stampa. Se, grazie al libro stampato, è possibile sottrarre all’oblio una serie di testi e ampliarne la diffusione, lo sviluppo della stampa implicherà il graduale aumento della lettura solitaria con la conseguente incertezza della sua corretta ricezione. Se l’atto della lettura medioevale era controllato in qualche modo dal maestro che guidava la lectio e quindi cercava di guidare la giusta interpretazione del testo, con la diffusione della stampa questo controllo diventerà sempre più improbabile.

La figura del direttore degli Esercizi, soprattutto a partire del direttorio ufficiale promulgato sotto il governo di Claudio Acquaviva (1581-1615), è stato un modo di controllare l’incertezza non solo dell’interpretazione del testo ma di riorientare eventuali delusioni delle aspettative da parte dell’esercitante. Si ricordi che per la società dell’incipiente modernità l’esperienza era orientata normativamente, a differenza di quello che succede nel nostro sistema sociale in cui l’orientamento è di tipo cognitivo. Per quegli uomini, innanzi alle aspettative disattese, era la norma che insisteva e si rinforzava per assorbire l’insuccessi. Per noi è possibile, davanti alle delusioni, modificare le aspettative e questo perché l’orientamento preponderante è di tipo cognitivo, vale a dire, impariamo dalle delusioni.

Malgrado questi contrappesi, o meglio, grazie a essi, la pratica degli Esercizi si diffonderà in un proliferare di testi che presentano notevoli variazioni, obbligando a nuove selezioni per stabilire ciò che si considera identitario. L’enorme produzione di testi, che circoleranno sia manoscritti che a stampa, così come la loro lettura ed ermeneutica, è concepita in un mondo precedentemente interpretato a partire da una marca ontologica che esclude, a differenza nostra, la contingenza segno costitutivo dello stare al mondo.

Si potrebbe obiettare a questo riguardo che già la prima annotazione al testo ignaziano prevede questa variabilità metodologica:

Con questo termine di esercizi spirituali si intende ogni modo di esaminare la coscienza, meditare, contemplare, pregare vocalmente e mentalmente, e altre attività spirituali, come si dirà più avanti.

L’espressione ogni modo (“todo modo”) deve essere ogni volta storicizzata giacché risponde a una determinata semantica, intesa come patrimonio concettuale di uno specifico sistema sociale. Il todo modo sarà sempre coniugato secondo i propri tempi.

L’enorme lavoro di selezione e di interpretazione di Iparraguirre si elabora a partire da una distinzione ontologica. Questa distinzione postula un concetto ontologico di totalità. Suppone l’esistenza di un mondo dato e non di un mondo osservato, in quanto medium sul quale una forma può imprimersi[4]. La marcatura del mondo, fino alla prima modernità, presupponeva un mondo creato. La marcatura della nostra modernità avanzata implica un mondo creato nell’osservazione/distinzione. Se il mondo invece di “dato” lo si concepisce e lo si riconosce come un mondo marcato (marked space), frutto di una distinzione si dovrà fare conto con la contingenza[5].

Questa distinzione direttrice porterà all’instancabile gesuita a una continua ricerca dell’”essenza” degli Esercizi Spirituali. Il suo percorso di ricerca lo porterà a confrontarsi con miglia di manoscritti dei secoli XVI al XVIII. Perfino lo stile della sua scrittura, tenendo delle caratteristiche della collana Bibliotheca Instituti nella quale edita il suo lavoro, è inusuale. Talvolta il flusso dell’analisi storico si interrompe con alcuni tratti intimisti, quando ci si aspetterebbe una narrazione più scientifica e distaccata.

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La “lotta spietata contro i documenti”

Iparraguirre non avrà nessuna riluttanza in confessare più volte la grande difficoltà che trova nella preparazione del suo terzo volume che si presenta come lo stesso gesuita una lotta spietata contro i documenti.

Quando, più di 15 anni fa, dopo la pubblicazione del secondo volume di questa storia, iniziai la preparazione del presente, mi resi subito conto delle grandi difficoltà che l’impresa avrebbe comportato per me. […] La prima difficoltà, che fu per me fonte di grande disorientamento per molti anni, fu il concetto stesso della natura degli esercizi spirituali. Mi ero avvicinato ai documenti con una certa visione. Mi ero abituato a comprendere gli esercizi di Sant’Ignazio a partire da quelli che tradizionalmente erano stati praticati secondo uno schema fisso[6].

A causa dall’aspettativa generata dalla sua propria impostazione teorica, “la ricerca della natura degli esercizi spirituali”, il risultato è il “disorientamento”. La metodologia con cui elabora la sua storia delle idee è indirizzata a scoprire, sotto il mantello della varietà, un nucleo immutabile e astorico il quale, per lo storico risulta un’aporia insostenibile. La sua ricerca lo mette a confronto con testi che cambiano continuamente e con pratiche che ai suoi occhi diventano irriconoscibili. La sorpresa della scoperta muta in sconforto e si aprano innanzi a lui domande che non troveranno risposte soddisfacenti.

Adesso scopro che chiamavano esercizi a incontri di una o di due ore, in cui si discutevano i più svariati argomenti. Furono pubblicati sotto il titolo di Esercizi trattati sull’amore di Dio, sulle virtù e sui molteplici problemi spirituali. Fino a che punto si è spinto il limite dell’ignazianesimo [sic]. Sant’Ignazio riconoscerebbe queste forme come sue? Meritavano il nome di esercizi?[7]

Per lo storico che parta da una concezione ontologica del passato si presentano due nodi gordiani. Il primo di questi è la grande quantità di dati e, il secondo non considerare i propri fondamenti epistemologici della sua ricerca. Lo storico crea il suo proprio labirinto dove colloca massa inesauribile di fonti, di dati sulle fonti, di dati sulle fonti delle fonti. Questa stratificazione è osservata da Iparraguirre nella genesi stessa del testo ignaziano che lui denomina “immortale libricino” evocando non solo un’origine divina ma un destino che oltrepassa il tempo:

L’immortale libricino apparirebbe così in tre momenti di gestazione storica. La sua preparazione indiretta, cioè il quaderno di Loyola aumentato a Montserrat e i primi mesi di Manresa, serviva solo ad aiutare la sua devozione. L’opera illuminata di Manresa fu quella di aiutare sé stesso, come direttore di esercizi. Verso la fine degli studi, è stato fatto per aiutare altri direttori di esercizi.

Questo accumulo, che spesso non genera informazione, intesa come la differenza che fa la differenza, fa sì che lo storico si ostini nella propria ricerca, la quale si ricama sempre con nuovi dettagli. In questo modo, la collezione di minuzie e particolari si pensa sia criterio dell’acribia e rigorosità del lavoro scientifico. Iparraguirre non può che costatare la frammentazione del suo itinerario di ricerca.

È impossibile scrivere una storia completa [degli Esercizi] in queste circostanze. I materiali sono ciottoli sciolti che si trovano nei posti più improbabili. Spesso la nostra narrazione darà l’impressione di un mosaico incompleto piuttosto che di una figura armoniosa. Ci sono grandi lacune nella descrizione dell’insieme.

Innanzi a quel volume di dati non selezionati ma accumulati non è possibile stabilire un guadagno conoscitivo poiché non è fattibile unire causalmente le reti di eventi in una trama coerente e che possa dare spiegazioni plausibili. Così descrive Niklas Luhmann questo sforzo degno di Sisifo:

Nella lunga ricerca sulla storia delle idee si è cercato sempre più di rendere conto degli aspetti particolari. Ma il patrimonio ideale della tradizione è talmente delicato, complicato e mobile da creare difficoltà insuperabili a chi volesse fare chiarezza in maniera non grossolana – si pensi alle dogmatiche teologiche o giuridiche, alle questioni di stile nello sviluppo dell’arte, alla casistica morale della confessione o alla casistica amorosa dei salotti. I ricercatori, mandati sul campo per stabilire come stavano davvero le cose, non fanno ritorno; non apportano, non fanno rapporto, si bloccano e si fanno incantare dai dettagli[8].

Due ultime citazioni del terzo volume della Historia de los Ejercicios di P. Iparraguirre, la prima corrispondente all’introduzione e la seconda alla conclusione, racchiudono questo percorso erudito. L’erudizione[9] è stata presente nella storiografia della Compagnia di Gesù nelle sue collezioni di edizioni di fonti storiche, come nel caso che ci occupa. All’erudizione se le attribuisce un valore di oggettività a partire dalla prima modernità. Si pensava che l’erudizione avesse una voce propria e che bastasse disporre della totalità dei documenti affinché fosse possibile udire chiaramente la verità senza fare ricorso a trucchi retorici. Il problema risiede nel dispiegamento di una complessità inafferrabile e irreducibile senza una teoria che la confronti. Complessità significa un eccesso di possibilità del mondo rispetto al quale la scelta è, fondamentalmente, esclusione di altre possibilità. Per tanto, la complessità impone l’esercizio della selezione e l’obbligo di selezionare si chiama contingenza, e contingenza significa rischio. Quando si pensa alla complessità, vengono in mente due concetti diversi. Il primo si basa sulla distinzione tra elementi e relazioni. Se abbiamo un sistema con un numero crescente di elementi, diventa sempre più difficile interrelazionare ogni elemento con gli altri. Il numero di relazioni possibili diventa troppo grande rispetto alla capacità degli elementi di stabilire relazioni e da qui sorge la costrizione a selezionare.

La Historia de los Ejercicios sembra non tenere conto del problema della complessità, al contrario, finisce per aumentarla. Ciò che si annuncia nell’introduzione si ripete nella conclusione:

Siamo fiduciosi che, nonostante queste limitazioni, il lettore potrà trovare luce in molti punti, seguire il movimento della pratica degli Esercizi in tutta Europa, entrare nel problema profondo di un movimento spirituale che arrivava al più intimo dell’essere, assistere alla lotta di tendenze e correnti che possiedono uno sfondo universale, scoprire gli sforzi dei direttori per adattare il metodo alle esigenze delle varie persone[10].

C’erano senza dubbio forme spurie, meno ignaziane, ma anche forme non meno autentiche di quelle del secolo precedente. Soprattutto si riuscì a filtrare l’essenza ignaziana in una realtà molteplice e inimmaginabile all’inizio del secolo. Gli esercizi continuavano a vivificare la società, e a fornire luce, pace e forza a migliaia e migliaia di persone che li praticavano in modo più o meno perfetto[11].

Piuttosto che cercare l’essenza immutata, lo storico può studiare la storia dell’appropriazione dei testi.

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Alla ricerca di una teoria della ricezione

Il testo degli Esercizi Spirituali di Sant’Ignazio può essere osservato da varie discipline, una delle quali è la storia.

Accostarsi al testo degli Esercizi Spirituali di Sant’Ignazio a partire dalla disciplina storica implica mettere in moto una serie di distinzioni. Questo sforzo si concentra sul superamento dell’ovvietà e dell’ingenuità di credere che la comunicazione sia semplicemente il trasferimento di un contenuto da una coscienza ad un’altra. In altre parole, si tratta di abbandonare l’idea che la comunicazione sia il trasferimento di informazioni da un mittente a un destinatario. Questa ingenuità concettuale non spiega come siano possibili le abbondanti incomprensioni, né ci salva dalle frequenti delusioni comunicative con cui dobbiamo fare i conti nella nostra vita quotidiana.

Il testo degli Esercizi può essere considerato in questa dinamica comunicativa. Con questo punto di partenza si stabiliscono i presupposti per una determinata teoria della ricezione che considera la comunicazione come la sintesi di tre selezioni: l’informazione, l’atto di comunicare e l’atto di comprendere. La prima selezione si realizza scegliendo di cosa si vuole parlare, vale a dire quale informazione. La seconda è la partecipazione dell’informazione: l’atto di comunicare. Queste selezioni sono simultanee e non cronologiche, perché se ne manca una, non c’è comunicazione. La comunicazione è così composta da due selezioni: una è ciò di cui si parla e l’altra è l’atto di notificarlo. L’atto di comprensione è ciò che determina la comunicazione.

Gli storici tradizionalmente leggono i documenti dalla prospettiva dell’autore e dimenticano quella determinante, quella del lettore. La comunicazione avviene solo al momento della ricezione, lo storico dovrebbe studiare il documento dal punto di vista dell’appropriazione che ne hanno fatto i destinatari originari. In altre parole, la comunicazione non avviene per il fatto di emettere il documento, ma dal momento in cui il pubblico a cui è destinato lo comprende.

La pratica degli Esercizi è la storia dell’appropriazione di un testo. Si stabilisce una continua relazione tra scrittura e lettura. Il testo è prodotto tenendo in considerazione le aspettative proprie di un determinato sistema sociale, vale a dire che sono sempre relative a una certa società. Le aspettative dei testi premoderni, tra cui quelli che si scrivono sulla sia degli Esercizi Spirituali, sono orientate a non frustrare le aspettative dei lettori.

In questo senso, possiamo vedere il lavoro inaugurato dai direttori, che cercano costantemente di stabilire le regole della pratica e dell’ermeneutica. Il testo svolge la sua funzione comunicativa nel momento della ricezione, cioè nel momento dell’atto di comprensione. Le affermazioni del testo sono già state elaborate pensando alla comunità dei lettori.

La lettura, e quindi la comprensione, si svolge sempre nel presente del lettore, il che significa che gli Esercizi possono essere collocati oggi in relazione alla sinodalità o a qualche altro tema che guidi la comunicazione del sistema sociale. Questa familiarità, inevitabile come per ogni atto di comprensione, deve essere però affrontata metodologicamente per aiutarci a comprendere l’illusione di simultaneità che abbiamo di fronte a un testo che viene dal passato.

In occasione della presentazione del libro Les mots e les choses (1966), Michel Foucault, in dialogo con Pierre Dumayet, volle stabilire una possibile chiave di lettura della complessità di un testo. La sua intenzione era quella di posizionarsi come etnologo della propria cultura occidentale, di diventare uno straniero a sé stesso. Solo in questo modo, ha detto, si possono riconoscere le categorie del sapere. La sfida per lui era quella di contemplare l’Europa della modernità incipiente, allo stesso modo in cui un etnologo studia il Nambikwara del Brasile o l’Arapesh della Nuova Guinea.

A seguito di una domanda di Dumayet su chi sarebbe stato l'”etnologo ideale” per il nostro tempo, Foucault riteneva che il “migliore” etnologo della nostra cultura non sarebbe stato necessariamente un nambikwara, un arapesh, per il semplice motivo di appartenere a una di queste culture, ma qualcuno che fosse in grado di prendere le distanze dalle proprie categorie di conoscenza. Un percorso analogo fu intrapreso dal “giovane” Michel de Certeau quando alcuni gesuiti “spirituali” del XVII secolo divennero il suo oggetto di studio. Dal considerarli “identici” e uniti alla stessa identità gesuita, giunse a considerarli, come abitanti di un continente sconosciuto, a considerarli “selvaggi” di cui non possedeva la grammatica.

In termini simili, Michael Baxandall[12] suggerisce, per considerare il Battesimo di Cristo (1450) di Piero della Francesca, di allontanarsi dall’opera applicando un concetto operativo come la commensuratio, intraducibile oggi, e che costringe l’osservatore a tornare indietro per stabilire la sua evoluzione semantica. È da questa stranezza che è possibile vincere una sorta di aura di familiarità che non permetterebbe di concettualizzare correttamente. Questo concetto di “falsa familiarità” è stato usato anche (1984) da Robert Darnton[13]. Secondo lui abbiamo bisogno che qualcosa ci scuota da un falso senso di familiarità con il passato, di ricevere una sorta di “shock culturale”. Questo concetto è stato successivamente ripreso da Pierre Bourdieu quando, alcuni anni dopo, ha analizzato la “genèse sociale de l’oeil”[14]. È necessario porsi non tanto la questione dello sguardo, come a volte è stato tradotto questo capitolo della sua opera, ma propriamente quella dell’occhio del Quattrocento italiano. È l’occhio che rivela l’impegno del “nostro corpo nelle strutture tipiche di un mondo”. Occhio morale e spirituale incarnato dalla religione, dall’educazione e dagli affari.

Per gli autori citati, attuare questa lontananza era la condizione fondamentale per poter lavorare con quelle impronte e oggetti che arrivano dal passato.

La familiarità è un modo per ridurre la complessità, creare aspettative di continuità, riferire le cose (e le persone) a un mondo conosciuto. Sappiamo da quello che sappiamo. Dall’altra parte del familiare, su ciò che non è familiare, ci sono i segni oscuri. Questi manoscritti, vestigia di un passato che non ci appartiene, ci ricordano il modo contingente di stare al mondo, secondo il quale le cose non accadono ontologicamente ma sono sempre legate a un’attribuzione, che può essere sempre diversa.

Se assumiamo di non poter conoscere il mondo nella sua condizione ontologica, possiamo ammettere la possibilità di conoscerlo nella sua condizione sistemica. Invece, impariamo a conoscere i sistemi che creiamo per osservare la realtà. Questi manoscritti sono il residuo (la rovina) di un’osservazione del mondo il cui cifrario, o grammatica, permetteva l’accesso al mondo in quanto tale. La descrizione di un tale sistema concettuale ci farà capire le differenze con il nostro. L’instaurarsi di queste differenze potrebbe implicare un doppio guadagno di conoscenza: da un lato, per comprendere meglio l’oggetto in questione e, dall’altro, per descrivere meglio i nostri quadri concettuali.

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Tornare all’Archivio

P. Ignacio Iparraguirre è stato uno degli ultimi gesuiti a lavorare in modo consistente con le fonti di archivio. Intento a leggere un resto di scrittura difficilmente visibile nel dorso del codice FC 1055 conservato nell’ Archivio Storico della Pontificia Università Gregoriana scrisse: In dorso posteriori pergamenae, aliqua verba sunt quae legi non possunt, nam atramentum fere evanuit et tantum remanent obscurissima signa[15]. Questa difficoltà paleografica diventa metafora e sineddoche del suo instancabile percorso di ricerca.

Questo antico codice un po’ per caso e grazie a una donazione, che ci ha permesso di fare la sua diagnosi e restauro, è tornato alla luce. Con il codice FC 1000, anch’esso recentemente restaurato, ed altri simili, abbiamo iniziato a interrogarci sulla funzione di questi antichi testimoni. Il suo autore, probabilmente P. Girolamo Benci (1561-1608), registra brani di altri manoscritti, legge, estrae, pratica l’antico ars excerpendi.

La profonda quiete in cui questi codici riposano, nel buio dell’archivio, indica che quell’insieme di appunti, frutto di un lavorio quotidiano e arrivati a noi per una ignota volontà conservatrice, sono diventati invisibili. Non appaiono più nell’orizzonte di senso. Malgrado la loro materialità sono totalmente evanescenti, come il loro inchiostro, o meglio, sono spettrali. Non solo non sono più chiamati, come un tempo, a rappresentare l’origine dell’ordine gesuitico ma anche per lo storico sono diventati obscurissima signa. Sono sospesi in una specie di limbo: non sono né semiofori, vale a dire rappresentanti dell’invisibile e portatori di significato, né utili.

È diventato difficile per noi identificarne la forma, cioè i criteri della loro composizione, chi fossero i possibili destinatari, quali erano le loro aspettative, le distinzioni da cui sono stati osservati, il loro uso, nonché il motivo della loro conservazione per secoli.

Michel de Certeau, che si situa in quel frangente che abbiamo identificato come il “ritorno alle fonti”, coincide con il lavoro del suo confratello Ignazio Iparraguirre e partecipa all’analisi delle fonti di archivio. Ma il suo percorso lo porterà a riconoscere l’inafferrabilità del concetto di “spiritualità” che in quegli anni era già diventato una moneta corrente. Per lui, la difficoltà di lettura non si situa a livello paleografico ma gli obscurissima signa saranno la chiave di comprensione per addentrarsi in quel paese sconosciuto ed estraneo dei mistici gesuiti del XVII secolo. Conoscitore acutissimo di quei testi coglie non l’essenza della spiritualità ma l’evanescenza, come l’inchiostro nella pergamena, del suo passaggio nel tempo.

Infine, che cosa è dunque una spiritualità? Considerata nel suo principio, come il termine di un «ritorno», sarebbe uno «spirito» originale, già tradito da tutto il suo linguaggio iniziale e compromesso dalle sue interpretazioni ulteriori, in modo che, non essendo mai là dove è detta, sarebbe dunque l’inafferrabile e l’evanescente[16].

Ogni spiritualità ha come referente il sistema sociale nel quale circola. Come dice Michel de Certeau, se la spiritualità mette al centro il problema del rapporto con la divinità, non può farlo che a partire dagli stessi termini in cui sorge la questione circa le probabilità e le modalità di questa relazione, vale a dire con il “linguaggio” che parlano gli uomini. La spiritualità è essenzialmente storica. Se questo è così, come tornare agli antichi testi della “spiritualità ignaziana” che parlano un linguaggio a noi quasi incomprensibile, “selvaggio”, il quale ha bisogno di interpreti che traducono e tradiscono? Come avvicinarsi a concetti che avendo circolato all’interno di una determinata struttura sociale per permetterli di continuare ad essere valuta corrente diventerebbero irriconoscibili per coloro che noi oggi chiamiamo fondatori?

Questi codici manoscritti storicamente possono essere collocati nel momento in cui l’ordine gesuitico realizzò il passaggio da un governo centrato nelle persone dei primi fondatori, caratterizzato da un sistema di interazione ripetuto e regolare, a un governo in cui la comunicazione scritta e poi stampata prende il sopravvento.

Il veloce aumento demografico dell’Ordine (più di 13000 membri nel 1615), così come l’incremento della tecnologia della stampa contribuiranno a valorizzare la scrittura come mezzo di diffusione adatto alla costituzione della memoria sociale.

Sotto il governo del superiore generale Claudio Acquaviva (1581-1615) un numero crescente di comunicazioni manoscritte, cronache e storie, insiemi di esortazioni di carattere parentetico e lettere di governo e regole, cominciarono ad essere stampate. Si vorrà in questo modo ricondurre la molteplicità degli eventi a una memoria comune e, a partire de essa, coordinarli e interpretarli, creando ridondanza riguardo all’aumento della varietà ed evitare così la dimensione sorprendente degli avvenimenti. Questa produzione stampata si presentò come un insieme di fonti spirituali funzionale all’administratio dell’ordine gesuitico[17].

La costituzione di questa «biblioteca» rappresenta la costruzione di una origine originante, determinata dallo stabilimento di una cesura tra passato e presente, nella quale si collocheranno, di volta in volta, una selezione di documenti considerati fondamentali.
Questa operazione selettiva la troviamo descritta nella nota al lettore di P. Bernardo de Angelis, Segretario della Compagnia di Gesù, nell’edizione delle Lettere de’ prepositi generali[18]Pensiero fu sempre di molti che sarebbe stata cosa non meno giovevole che gioconda la scelta delle lettere dei nostri Generali […] servirebbero come di memoria viva […] a mantenere sempre mai verdi nel tronco dello spirito primiero della vocazione nostra, alla quale come a bersaglio mirano tutte […]. Riscattare dall’oblio alcuni documenti (quam in membranis scripta delitescunt) è l’intenzione espressa anche nel prologo dell’Instructio pro superioribus ad augendum conservandumque spiritum in Societate (1604)[19].

Se da una parte, la stampa assicurerà una maggiore diffusione della comunicazione, allo stesso tempo il testo scritto, così diffuso, sarà occasione di una maggiore incertezza in ciò che riguarda la sua interpretazione e ricezione. Questi codici si possono collocare in questi passaggi epocali.

Il restauro di questi codici “in rovina” ci ha dato l’opportunità di considerarli come rovine. La sua sopravvivenza in quanto tale ci permetterà di esaminare la temporalità in cui si è verificato e, eventualmente, di riflettere sulla nostra percezione del tempo. Ciò significa considerare i tempi del tempo. Solo per questo motivo, vale la pena salvare questi oggetti dall’oblio e intraprendere nuove strade di ricerca. Ci ricordano che dire “mondo” è dire “mondo interpretato”[20]. L’archivio che gli racchiude rimane silente nell’attesa di essere interrogato con nuove domande.

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Bibliografia

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  1. Ignazio Iparraguirre, Historia de la práctica de los Ejercicios espirituales de San Ignacio de Loyola (Bilbao-Roma: Institutum Historicum Societatis Iesu, 1946-1973), 3 vols.

  2. Nel 1966 Michel de Certeau scrisse un articolo intitolato: Se dire aujourd’hui jésuites, “Christus,” t. 13, no. 51, 311-313. Posteriormente pubblicato come: “Le mythe des origines,” in Faiblesse de croire (Paris: Seuil, 1987).

  3. Iparraguirre, Historia, I, 28*.

  4. Per la distinzione forma/medium vedi: Claudio Baraldi; Giancarlo Corsi; Elena Esposito, Luhmann in glosario. I concetti fondamentali della teoria dei sistemi sociali (Milano: Franco Angeli, 2012), 118-119.

  5. A questo riguardo: George Spencer-Brown, The laws of Form (London: Allen & Unwin, 1969).

  6. Iparraguirre, Historia, III, 19*.

  7. Idem.

  8. Niklas Luhmann, “Le storie delle idee nella prospettiva sociologica, Storiografia no. 12 (2008): 1-13.

  9. Anthony Grafton, What was History? The Art of History in Early Modern Europe (Cambridge: University Press, 2007).

  10. Iparraguirre, Historia, III, 31*.

  11. Iparraguirre, Historia, III, 563.

  12. Michael Baxandall, Pattern of Intention (New Haven and London: Yale University Press, 1985).

  13. Robert Darnton, The Great Cat Massacre and Other Episodes in French Cultural History (New York: Basic books, 1984).

  14. Pierre Bourdieu, Les règles de l’art: genèse et structure du champ littéraire (Paris: Seuil, 1992), 434.

  15. Monumenta Ignatiana. Series secunda: Exercitia spiritualia Sancti Ignatii de Loyola et eorum directoria v. II, Roma: Institutum Historicum Societatis Iesu, 57.

  16. Michel de Certeau, Il mito delle origini in La debolezza del credere (Milano: Città Aperta, 2006), 52.

  17. Instructio pro Superioribus ad augendum conservandumque Spiritum in Societate, Romae, in Collegio Romano, 1615.

  18. Lettere de’ prepositi generali a’ padri e fratelli della Compagnia di Giesu, Roma, nel Collegio Romano, 1606.

  19. La prima edizione di questa istruzione è del 1615: Instructio pro Superioribus ad augendum conservandumque Spiritum in Societate, Romae, In Collegio Romano, 1615. Anche in questo caso il prologo è di Bernardo de Angelis.

  20. L’espressione “mondo interpretato” (gedeuteten Welt) ricorre nella prima dell’Elegie duinesi di Rainer Maria Rilke.